Una stanza trasognata tutta per sé tra materia e natura
Inaugurazione sabato 19 ottobre 2013, ore 18,00. Fino al 6 novembre 2013.
Nel chiuso di una stanza c’è sempre un altrove.
Tina Moretti vorrebbe che nel chiuso di una stanza ci fosse sempre un altrove, coi frammenti del quotidiano trasfigurati in immagini in cui possano rifugiarsi il cuore e l’immaginazione di tutti. Il nodo è quello del rapporto tra l’oggetto della creazione con materie spesso povere e gesti essenziali, e l’oggetto dell’attuale feticismo, quello consumista, con cui il mondo alimenta una nuova superstizione. Nell’insieme, il senso positivo risiede proprio nel richiamarci a idee di tempo e di vita lontane da quelle dell’orologio: nel suggerirci quindi – guardando dentro certi specchi, certe formelle, certe cortecce, certi retaggi della nostra infanzia – di provare a cambiare modo di guardare le cose conosciute. Guardare, ci ricorda, è anche ascoltare, essere ricettivi.
Traccia così topografie trasognate, terrestri e astrali, agendo su una materia che accade, che è fatta vibrare in un ritmo biologico e psichico. Nelle sue tele, nei suoi legni, Tina Moretti inscena la vita come ricerca di equilibrio, costantemente disturbata da ferite e incidenti di percorso, sicché lascia irrompere fessure e lacerazioni, ostacoli e fratture come emozioni, sussulti e imprevisti, tra bianche coltri e preziosità dorate, come tentasse un’avventura verso un nuovo riscatto, persino verso un nuovo splendore. Sono opere come anime rattoppate dalle cuciture del segno o abbeverate dalle preziosità segniche, per un canto ingorgato ma di sonorità quasi muta, come si propagasse in un vasto spazio inesplorato.
I suoi oggetti – come scarti o grumi umorali che trattengono tutta l’impurità del vissuto esistenziale – appaiono in gran parte come guardiani magici e solidali, favolosamente scampati nella nostra epoca che non può più credersi in sintonia col ciclo naturale di tutte le cose. Le assi, i tronchi, le cortecce, i sassi, le porte dismesse da stalle e case campagnole, mantengono le loro forme naturali, ed è come se l’artista ci chiedesse di provare ad ascoltare il respiro unitario e profondo, la sintonia tra la natura e la fatica dell’uomo. La pittura che asseconda, provoca e converte – anche con tracce dorate come barbagli di ricchezze d’Oriente, di incantamenti d’icone – le scabrosità delle superfici logorate e dolenti, insegna ad allenare la fantasia con esercizi che provano a ribaltare le qualità o il luogo delle cose quotidiane. E le piegature della carta, del panno, che chiudendosi accartoccia su se stessa l’immagine (il segreto dell’immagine) e aprendosi la scompone, la offrono metaforicamente agli elementi naturali ed alle passioni che trasformano continuamente le forme. Da tracce minime, quasi insignificanti o banali, si arriva ad una narrazione di spazi e pulsioni del vissuto e della memoria.